È l’ultima provocazione dell’Accademia dei Racemi. Un vino per comunicare il disagio della Puglia nell’assistere inerme alla propria colonizzazione, nel momento in cui la sua identità e tipicità si affacciano con onore sul mercato internazionale.
Dall’asservimento delle uve e dei vini pugliesi alla causa di altre produzioni regionali si passa oggi all’uso (e talvolta all’abuso) delle terminologie varietali tipiche: primitivo, negramaro e nero di troia appaiono sulle etichette di vini imbottigliati ovunque al di fuori della Puglia, vini che senza certezza sulla propria origine, in quantità abnormi invadono i mercati creando confusione nei consumatori.
Il pregiudizio che marchiava il vino pugliese come vino esclusivamente da taglio, cadendo, ha ceduto il posto alla concessione di nuovi riconoscimenti, quasi sempre però relegati al rapporto qualità/prezzo, come se la qualità assoluta (cioè svincolata da un prezzo basso) possa essere appannaggio di sole poche altre regioni. Ciononostante il vino pugliese comincia ad inserirsi nelle carte dei ristoranti del mondo e a farsi apprezzare per la sua tipicità.
Eppure non di solo vino la Puglia ha fornito le altre regioni italiane. Fino a periodi recenti, prima che l’Assessorato Regionale all’Agricoltura ponesse il blocco assoluto, migliaia di ettari di diritti di reimpianto sono stati trasferiti altrove decretando l’estinzione definitiva di vigneti pugliesi a favore della nascita di vigneti in altre regioni.
Il fenomeno ha colpito in particolare i vecchi alberelli pugliesi (talvolta centenari), cioè quei vigneti che erano stati piantati col sistema inventato dagli antichi greci e tramandato di generazione in generazione: libere piante in libere terre, potrebbero definirsi, poichè nessun sostegno di pali o fili aiuta o incoraggia la vigna a produrre di più. Questi antichi monumenti alla viticoltura mondiale sopravvivono ancora soltanto nella nostra terra, combattendo non solo contro le intemperie e le avversità naturali ma anche contro gli assurdi incentivi che la Comunità Europea pose sul loro capo: veri e propri premi in denaro per dismetterli definitivamente.
Ora che la gente ha scoperto il gusto dei vini caldi, ricchi e solari, antichi come quelli pugliesi, frotte di capitalisti si precipitano da ogni dove a rilevare vigneti, acquistare casali, terreni e masserie, commerciare i vini pugliesi per fregiarsi della qualifica di produttori pugliesi. E purtroppo trovano terreno fertile in una viticoltura antica ma provata, in una enologia che ha finito per piegarsi ai pregiudizi e non si è rinnovata, in una politica europea vissuta passivamente che ha incoraggiato superproduzioni e annientamento della tipicità e che oggi – qui la beffa – mette a disposizione i fondi regionali soprattutto in favore dei capitalisti arrivati da fuori. Sicchè a poco è valso resistere, mantenere il vigneto negli anni bui delle distillazioni, coltivare nelle sabbie così parche di frutto, tenere in vita piante di oltre 50 anni d’età, le cui bacche apportano complessità, concentrazione e profondità di aromi.
Come può un vino comunicare questo disagio e anzi incoraggiare alla resistenza o addirittura alla ribellione?
Se è prodotto da una schiera di innovatori, da chi ha lavorato con passione per il primitivo ed altre varietà quasi scomparse portandole alla ribalta dei consumatori attenti e appassionati del mondo, se il vino stesso contiene questo calore, questo istinto e passione per il territorio, se è fatto con uve che sanno di storia e tradizione, allora il significato intrinseco può anche passare attraverso il bicchiere…
Se il vino, ricco, intenso, con avvolgenti abbracci di frutta matura, è anche fine, morbido ed elegante, apprezzabile al palato di tutti, ma soprattutto economicamente alla portata di tutti, allora assume la forma di un messaggio, di un manifesto, di una testimonianza che ha solo bisogno di essere tramandata per la solidarietà dei pugliesi e della loro viticoltura.